ORBETELLO-La fabbrica del panico di Stefano Valenti racconta una storia familiare, che diventa corale di fronte alla malattia
e alla morte per amianto.
A narrarla, muovendosi per l'asse di ricordi, è il figlio quarantenne che sente la necessità e il dovere di stringere
un rapporto più ravvicinato col padre, sceso a Milano dalla Valtellina per morire in fabbrica.
Un rapporto che ricade sul figlio, il quale risulta sempre più gradualmente ferito dall’ansia di conoscere la
verità, arrivando per questa via a ricostruire, non solo nel padre, ma anche nei suoi compagni, il dolore
fisico e morale della fabbrica.
Il tutto raccontato con uno stile asciutto e tagliente, ma di forte impatto emotivo, che procede lungo il filo di
una dolorosa elegia. Una valle severa. In mezzo, il lento andare del fiume. Un uomo tira pietre piatte sull’acqua.
Il figlio lo trova assorto, febbricitante, dentro quel paesaggio, è lì che ha cominciato a dipingere,
per fare di ogni tela un possibile riscatto, e lì è ritornato ora che il male lo consuma. Ma il male è cominciato
quando il padre-pittore ha abbandonato la sua valle ed è sceso in pianura verso una città estranea, dentro
un reparto annebbiato dall’amianto. Fuori dai cancelli della fabbrica si lotta per i turni, per il salario, per ritmi
più umani, ma nessuno è ancora veramente consapevole di come il corpo dell’operaio sia esposto alla malattia
e alla morte. Ci vuole l’incontro con Cesare, operaio e sindacalista, per uscire dalla paura e cominciare
a ripercorrere la storia del padre-pittore e di tutti i lavoratori morti di tumore ai polmoni.
Dai primi romanzi di Paolo Volponi nessuno è riuscito a ‟entrare” in fabbrica con la potenza, il nitore, la stupefazione
di Stefano Valenti.